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Un bravo agente immobiliare è umile

È facile rispettare venendo poco rispettati?“…questa domanda mi risuona in testa molto spesso, operando ogni giorno da agente immobiliare onesto e coscienzioso che vuole solo il meglio per i propri Clienti.
È un quesito che mi si ripropone ancor di più recentemente, avendo conosciuto da vicino la realtà dei colleghi statunitensi, grazie alla possibilità di lavorare in CRS Italia come istruttore, realtà che mi ha permesso di potermi formare anche direttamente, appunto, negli States.
Viviamo in un paese che può vendere cultura al mondo, quindi non starò certo qui a dire che la verità si trova oltreoceano, perché non lo credo assolutamente.
In America ho percepito un pubblico informato circa l’effettiva utilità di un bravo agente immobiliare per il sereno svolgimento di una compravendita, informazione che gli permette di saper riconoscere un agente valido, senza “sparare a zero” sulla categoria, mancando di rispetto a tutti, indistintamente.
Non dico che negli U.S.A. tutti amino i nostri colleghi, ma sicuramente un pubblico che sa riconoscere i professionisti seri aiuta, nel breve-medio termine, a far cambiare lavoro a improvvisati, truffaldini e mascalzoni di turno.
La mia umiltà mi ricorda di non avere le competenze o il ruolo per supporre chi dovrebbe attuare provvedimenti necessari a cambiare le cose in Italia ed attivare delle campagne informative per far capire agli italiani quanto è utile un buon agente immobiliare e quanti soldi e tempo fa risparmiare. Sempre che si tratti di un mediatore valido e preparato.
Dall’esperienza giornaliera di agente immobiliare operativo e dalla mentalità da coach, mentore e formatore che ho coltivato, mi viene invece in mente di fare una riflessione su cosa ognuno di noi può fare per cercare di cambiare l’ordine delle cose e guadagnarci da soli il quotidiano rispetto, ogni volta che lo meritiamo.
Chi di voi è un assiduo divoratore di libri sullo sviluppo personale, sa benissimo che tutti gli studi psicologici dicono che l’essere umano ha pieno potere soltanto su UNA persona: se stesso!!!
Per questo voglio rivolgermi solo a cosa ognuno di noi può fare affinché l’utente finale, il Cliente, rispetti l’agente immobiliare quale professionista.
Le angosce, l’ansia, le preoccupazioni, le paure ed i timori che una persona sperimenta quando deve vendere o acquistare una casa, hanno per forza di cose un effetto “Dottor Jekyll & Mr. Hyde” e vediamo la gente cambiare nettamente di umore, prendendosi con noi delle libertà che con il Notaio non si sognerebbe mai di prendersi.
È chiaro, sa di ingiusto: ma ciò è naturale. Le uniche persone che possono “guidare” certi comportamenti siamo noi.
Dobbiamo sviluppare una forza ed un’autorevolezza interiore che sappia gestire ogni “codice rosso” dell’altrui ansia.
I modi possono essere molteplici: non si tratta né di soccombere, né di prendere le gente a calci. Ma per far ciò dobbiamo far chiarezza dentro di noi, acquisendo positività e forza interiore, in modo da “leggere” bene la situazione in essere, onde gestirla in vario modo per ispirare nel Cliente il rispetto per le nostre azioni.
Il compianto Stephen Covey, durante una sua celeberrima conferenza sull’ascolto, parlò della magica funzione del “bastone della parola” donatogli da un capotribù indiano. Covey raccontò che il capotribù gli disse che, per attivare i “magici poteri” del bastone, all’inizio di una conversazione avrebbe dovuto stabilire che il possessore del bastone acquisiva il diritto di parola e all’altro non restava altro che ascoltare con massima empatia, per far sentire l’altro DAVVERO capito, fino alla fine. Poi il bastone passava di mano, mettendo ora chi aveva appena finito di parlare nella veste dell’ascoltatore empatico.
Covey consigliò al suo pubblico di provare a fare la stessa cosa magari usando una penna, stabilendo a priori con il proprio interlocutore, che chi avrebbe tenuto in mano la penna poteva parlare, mentre l’altro si sarebbe limitato solo ad ascoltare con empatia, potendo (solo se necessario) porre veloci domande per meglio comprendere o prendere brevi appunti: l’obiettivo era sempre “far sentire l’altro capito”.
Chissà cosa accadrebbe se proponessimo questo giochino a un nostro Cliente particolarmente ansioso o preoccupato di non essere davvero capito o ascoltato…
Sempre negli States è da anni sana abitudine avere un mentore a cui fare riferimento oppure, per entrare ancor più in profondità nelle dinamiche personali alla base dei sentimenti negativi che distolgono dall’adeguata gestione del Cliente, un valido life coach.

Ma quand’è che una persona ha bisogno di un life coach?

Una persona ha bisogno di un life coach quando si trova in una “crisi di autogo­verno”, cioè quando non si sente efficace rispetto allo scegliere il da farsi all’interno di una precisa situazione o, più in generale, è in confusione di fronte a scelte anche comportamentali.
Esistono vari approcci di Coaching “conversazionale”, laddove il coach può anche intervenire con delle affermazioni per stimolare il coachee, oltre ad ascoltarlo.
Personalmente però prediligo un coaching meno conversazionale: l’Evidence-Based Coaching, che nasce all’interno di una comunità accademica che sostanzia il coaching in ambito scientifico (Coaching Psy­chology Unit, università di Sydney e Institute of Coaching, Massachusetts). Ovviamente non si parla di perfezionismo e neanche questo tipo di coaching assicura certezze. Possiamo dire che esso rappresenta­ spesso l’approccio scientifico più rigoroso per determi­nare l’efficacia di un intervento.
La procedura dell’Evidence-Based Coaching è molto rigi­da, perché è incentrata sull’autodeterminazione del coa­chee: il coach è un alleato che si lascia disorientare positi­vamente dalle parole del suo cliente senza mai interferire, ma limitandosi a “rimandare” quanto ascoltato o a fare do­mande per avere chiarimenti su quanto detto.
Il coach fa così in modo che il coachee si accorga di eventuali incongruenze nella sua esposizione, affinché ap­porti da solo gli aggiustamenti che, sessione dopo sessio­ne, gli faranno ritrovare la chiarezza interiore per scoprire le sue potenzialità e decidere autonomamente la strada da intraprendere.
Le sessioni vedono il coach interagire con il coachee per un massimo del 10% della durata della sessione, occupando questo tempo, ap­parentemente limitato, con domande, rimandi e persino silenzi. In sintesi: il coach sta zitto e ascolta l’altro parlare.
È simile al bastone della parola di Covey: il coach non dice cosa fare, ma aiuta il coachee a fare chiarezza in sé per capire da solo come pensare e agire.
Questo fa un coach attraverso un ascolto profondo e strutturato, al fianco del suo coachee, in piena alleanza e complicità e nel totale rispetto della più assoluta riservatezza, sospendendo sempre il giu­dizio e in nome di una relazione davvero facilitante.
Ciò aumenta il rispetto del coachee verso se stesso e gli restituisce autostima e chiaramente lo abitua a sostenere delle conversazioni facilitanti con i suoi Clienti, incutendo rispetto anziché timore, aumentando così in loro una percezione altamente professionale.

È quindi facile rispettare venendo, di base, poco rispettati?

Io direi che con il giusto aiuto, ognuno di noi può ogni volta attingere risorse da se stesso per volgere la situazione a proprio favore dimostrando coi comportamenti, a chi in quel momento non ci rispetta, che meritiamo invece lo stesso rispetto e considerazione ambiti dalla controparte.
Buon lavoro a tutti voi.

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